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STUPEFACENTI E COLTIVAZIONE LEGALE

Non e' reato la coltivazione domestica della marijuana (Il Sole 24 Ore Radiocor Plus) - Roma, 30 apr - 'Il reato di coltivazione di stupefacenti e' configurabile indipendentemente dalla quantita' di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformita' della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalita' di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono pero' ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attivita' di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore'. E' questo il principio di diritto della importante e attesa sentenza delle Sezioni unite penali, che di fatto afferma la liceita' della coltivazione domestica di cannabis purche' a uso strettamente personale, pur restando in tal caso ferma l'applicazione delle sanzioni amministrative, ovvero ritiro della patente, sospensione di porto d'armi, passaporto e permesso di soggiorno, previste per la "detenzione" della sostanza a uso personale. La vicenda concreta riguardava un trentenne condannato a un anno di reclusione e tremila euro di multa perche' in casa aveva due piantine e una riserva di circa 11 grammi di cannabis

Corte di cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 6 aprile 2020 n. 12348

OMICIDIO E AGGRAVANTE DELLA CRUDELTA'

Premeditazione e aggravante della crudeltà nell'omicidio - Presupposti -
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 12 marzo – 13 aprile 2015 


4. Il ricorso è fondato nei limiti che si passa ad esporre.
4.1 Infondato è, in particolare, il primo motivo di impugnazione.
Sulla censura di natura processuale ad esso affidata, giova richiamare la costante, reiterata e sempre
convergente lezione interpretativa di questa corte di legittimità, secondo cui, nel giudizio d'appello, la
rinnovazione del dibattimento, implicando una deroga alla presunzione di completezza
dell'indagine istruttoria svolta nel primo grado di giudizio, rappresenta un istituto di carattere
eccezionale. Ne consegue che l'art. 603, comma 1, c.p.p. non riconosce il carattere dell'obbligatorietà
all'esercizio del potere di rinnovazione da parte del giudice, anche quando è richiesta per assumere
nuove prove, ma subordina tale potere alla condizione rigorosa che egli non possa decidere allo
stato degli atti, nel senso che risulta indispensabile - ai fini della pronuncia - un
approfondimento probatorio (Cass., Sez. IV, 02/12/2009, n. 47095).
In riferimento particolare poi alla motivazione del rigetto della istanza istruttoria, ha avuto modo di
osservare il giudice di legittimità che esso si sottrae al sindacato di legittimità quando la struttura
argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fondi su elementi sufficienti per una
compiuta valutazione in ordine alla responsabilità (Cass., Sez. VI, 21/05/2009, n. 40496). Non solo: per
Cass., Sez. II, 16/03/2005, n. 13489, in tema di rinnovazione in appello dell'istruzione dibattimentale, il
giudice, pur investito di specifica richiesta con i motivi di impugnazione, è tenuto a motivare solo nel
caso in cui a detta rinnovazione acceda. Infatti, in considerazione del più volte evocato principio di
presunzione di completezza dell'istruttoria compiuta in primo grado, egli deve dar conto dell'uso
che va a fare del suo potere discrezionale conseguente alla convinzione maturata di non poter decidere
allo stato degli atti. Non così, viceversa, nell'ipotesi di rigetto, in quanto, in tal caso, la motivazione può
anche essere implicita e desumibile dalla stessa struttura argomentativa della sentenza d'appello, con la
quale si evidenzia la sussistenza di elementi sufficienti all'affermazione, o negazione, di responsabilità.
Pertanto, nell'ambito di tale quadro normativo e giurisprudenziale, deve essere valutata la censura mossa
dalla difesa alla sentenza del giudice dell'appello sotto il profilo del vizio della motivazione, riconducibile
alla fattispecie processuale di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), delibandola nel contesto della
ulteriore specificità data nel caso di specie dalla celebrazione del primo grado di giudizio nelle forme
del rito abbreviato, nel cui ambito, secondo comune insegnamento, la mera sollecitazione
probatoria non è idonea a far sorgere in capo all'istante quel diritto alla prova, al cui esercizio
ha rinunciato formulando la richiesta di rito alternativo (Cass. Sez. 5, n. 5931 del 7.12.2005 rv.
233845).
Ciò posto, va osservato che la motivazione della sentenza della Corte territoriale (da ritenersi integrata
della decisione di primo grado, attesa la conformità delle due decisioni) sul tema dell'invocato
accertamento peritale, non presenta alcuno dei vizi previsti dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) che
devono essere desumibili dal testo del provvedimento impugnato.
Nella decisione in scrutinio è stato infatti evidenziato che nulla, nel presente e nel passato esistenziale
dell'imputato giustificava un accertamento sulle sue capacità di intendere e di volere al momento del
fatto e che le stesse circostanze della vicenda in esame apparivano dimostrative di una piena sua
coscienza e consapevole volontà di agire, argomenti del tutto logici e coerenti con le regole processuali,
in nulla inficiati dal tentativo di suicidio posto in essere dal prevenuto né dagli atti di autolesionismo
verificati dal consulente del P.M., la cui possibile incidenza sulla capacità dell'imputato non risulta affatto
dimostrata.
4.2 Altresì infondato è il motivo di ricorso affidato dalla difesa ricorrente al secondo motivo di
impugnazione al fine di contestare la legittimità della riconosciuta aggravante della premeditazione.
Al riguardo è noto l'insegnamento di legittimità secondo cui elementi costitutivi della circostanza
aggravante in parola sono un apprezzabile intervallo temporale tra l'insorgenza del proposito
criminoso e l'attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa
l'opportunità del recesso (elemento di natura cronologica) e la ferma risoluzione criminosa
perdurante senza soluzioni di continuità nell'animo dell'agente fino alla commissione del
crimine (elemento di natura ideologica) (Cass., Sez. Unite, 18/12/2008, n. 337).
Nel caso in esame hanno logicamente sostenuto i giudici di merito che la premeditazione dell'omicidio
risulta dimostrata da una serie di dati fattuali di essa sintomatici: innanzitutto il proposito da tempo
manifestato dall'imputato di uccidere la ex convivente e di uccidersi se non ripristinata la convivenza,
proposito riferito dalla madre della vittima e singolarmente, quanto tragicamente aderente ai fatti di
causa così come essi in seguito concretizzatisi; il movente dell'omicidio valorizzato dai giudici territoriali,
dato dalla mancata accettazione della volontà della donna di liberarsi da una convivenza divenuta
inaccettabile per la morbosa gelosia del compagno; le modalità dell'azione delittuosa, accuratamente
preparate e programmate nel tempo. L'imputato, già nel pomeriggio, aveva cercato, riuscendo
nell'intento, un incontro con la vittima, la quale, alla sua rinnovata richiesta di tornare insieme, aveva
opposto l'ennesimo rifiuto; il comportamento successivo del prevenuto appare dimostrativo, per i giudici
territoriali, di un progetto a lungo meditato e con cura preparato: dopo il rifiuto anzidetto, infatti,
l'imputato si è recato a casa di un amico dove si è cambiato di abito e si è armato di coltello, l'arma del
delitto, facendo poi ritorno nei pressi dell'autovettura della vittima; qui ha atteso la vittima
pazientemente per alcune ore, fino alle ventidue, orario di uscita dal luogo di lavoro; a questo punto ha
chiesto ed ottenuto di accompagnarla a prelevare il bimbo di due anni accudito da una baby sitter ed
all'ennesimo rifiuto della compagna, venuta meno la condizione alla quale aveva sottoposto il proposito
omicidiario, ha consumato il delitto, per quanto detto, a lungo meditato e preparato.
Orbene, in tema di premeditazione, la causale omicidiaria costituisce uno degli elementi dai
quali va desunta la sussistenza dell'aggravante (Cass., Sez. I, 04/12/2008, n. 2439) al pari della
predisposizione dei mezzi per l'attuazione del piano (Cass., Sez. I, 16/06/2005, n. 26793, Giampà)
alle quali nella fattispecie si deve aggiungere, per la rilevanza opportunamente data dalla corte
territoriale a tale fatto, le minacce di morte ripetutamente indirizzate dall'imputato alla vittima eppoi
realizzate nei profili con esse prefigurate (omicidio e suicidio contestuale ancorché tentato). Sul valore
della minaccia del fatto delittuoso come fatto sintomatico della premeditazione cfr. Cass., Sez. I,
25/01/1996, n. 1910, Bima.
Ricorrono pertanto nella specie i requisiti richiesti dalla norma per l'affermazione dell'aggravante in
discorso e del tutto logica si appalesa la motivazione sviluppata sul punto dalla corte territoriale, alla
quale la difesa ricorrente ha opposto censure generiche e comunque di merito.
4.3 Viceversa fondato giudica la corte il secondo motivo di doglianza là dove censura la motivazione
impugnata nella parte in cui riconosce a carico dell'imputato l'ulteriore aggravante della crudeltà.
Orbene, in materia è noto l'insegnamento costante del giudice di legittimità secondo cui la circostanza
aggravante di cui all'art. 61 n. 4 c.p. ricorre allorquando vengano inflitte alla vittima sofferenze che
esulano dal normale processo di causazione dell'evento, nel senso che occorre un "quid pluris"
rispetto all'esplicazione ordinaria dell'attività necessaria per la consumazione del reato, poiché
proprio la gratuità dei patimenti cagionati rende particolarmente riprovevole la condotta del reo,
rivelandone l'indole malvagia e l'insensibilità a ogni richiamo umanitario. In applicazione di tale
principio è stata pertanto negata la ricorrenza dell'aggravante in parola nella ipotesi dell'omicidio,
commesso in un impeto di gelosia, caratterizzato dalla mera reiterazione di colpi di coltello inferti alla
vittima e questo sul rilievo che tale reiterazione, essendo connessa alla natura del mezzo usato per
conseguire l'effetto delittuoso, non eccede i limiti della normalità causale e non trasmoda in una
manifestazione di efferatezza specie in considerazione del movente delittuoso (Cass., Sez. I, 06/10/2000,
n. 12083 Khalid, rv. 217346; nello stesso senso ed in fattispecie analoga: Cass., Sez. V, 17/01/2005, n.
5678, rv. 20745, secondo cui "Nel delitto di omicidio, la mera reiterazione di colpi inferti alla vittima non
è condotta rilevante ai fini della configurabilità della circostanza aggravante consistente nell'aver agito
con crudeltà, in quanto, essendo connessa alla natura del mezzo usato per conseguire l'effetto
delittuoso, non eccede i limiti della normalità causale e non trasmoda in una manifestazione di
efferatezza".
Orbene, del tutto analoga è la concreta fattispecie giudicata con la sentenza impugnata, caratterizzata da
undici fendenti portati per eseguire l'omicidio e non già per procurare una sofferenza aggiuntiva, peraltro
divenuta impossibile dappoiché accertato che le primissime coltellate avevano immediatamente cagionato
la morte della ragazza (Cass., sez. I, 21/10/2002, Botticelli, rv. 222519).
Del tutto eccentrico, rispetto alla questione giuridica in discussione, si appalesa infine il richiamo alla
presenza del bimbo di due anni.
È pur vero, infatti, che per Cass., Sez. I, 10/07/2002, n. 35187, Botticelli e altri, rv.222520, l'aggravante
in parola ricorre anche quando l'azione del colpevole sia indirizzata verso una o più persone diverse dalla
vittima del reato, che rimane però la destinataria della sofferenza.
Alla stregua delle esposte considerazioni non ricorre nella fattispecie, a carico dell'imputato, l'aggravante
di cui all'art. 61 c.p.p., co. 1, n. 4.
La sentenza impugnata va pertanto cassata sul punto, annullamento da deliberare senza rinvio giacché
comunque non incidente la eliminazione dell'aggravante detta sulla pena inflitta, attesa riconosciuta
legittimità dell'aggravante della premeditazione che comporta la pena dell’imputato e la ricorrenza,
altresì, di quella della minorata difesa non censurata dalla difesa.
4.4 Manifestamente infondato è infine il terzo motivo di impugnazione, incentrato sulla censura del
trattamento sanzionatorio ed in particolare sul diniego delle circostanze attenuanti generiche.
È noto al riguardo l'insegnamento di questo giudice di legittimità secondo cui, in tema di attenuanti
generiche, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di
consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione
prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del
fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di
detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo
all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni
possibile profilo, l'affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che
necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale
emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del
trattamento sanzionatorio, trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente
motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell'imputato volta
all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del
rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti, tuttavia, la stretta necessità della
contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (Cass.,
Sez. II, 22/02/2007, n. 8413; Cass., Sez. II, 02/12/2008, n. 2769) giacché il giudice non è tenuto a
prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall'imputato, essendo sufficiente che
egli spieghi e giustifichi l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione
delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (
Cass., Sez. II, 23/11/2005, n. 44322).
Ciò premesso ed in applicazione degli esposti principi deve concludersi che, ai fini dell'applicabilità o del
diniego delle circostanze attenuanti generiche, assolve all'obbligo della motivazione della sentenza il
riferimento ai precedenti penali dell'imputato, ritenuti di particolare rilievo come elementi concreti della
di lui personalità, non essendo affatto necessario che il giudice di merito compia una specifica disamina
di tutti gli elementi che possono consigliare o meno una particolare mitezza nell'irrogazione della pena
(Cass., Sez. V, 06/09/2002, n. 30284; Cass., Sez. II, 11/02/2010, n. 18158) ovvero, il che è lo stesso, alla
gravità della condotta giudicata.
Nel caso di specie la Corte ha dapprima illustrato le ragioni della doglianza e ad esse ha poi opposto la
motivazione di prime cure, ribadendo non solo la estrema gravità dei fatti, ma anche le modalità delle
condotte giudicate, giudicate di rilievo maggiore, per la decisione, dell'età dell'imputato e del suo stato di
incensuratezza, peraltro di per sé inidoneo, per disposizione normativa, a sostenere il riconoscimento del
beneficio.
Palese pertanto, in applicazione dei principi innanzi esposti, la manifesta infondatezza della censura in
esame, sia sotto il profilo del difetto di motivazione che della violazione di legge.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 12 marzo – 13 aprile 2015, n. 14998

INDENNIZZO PER ERRORE GIUDIZIARIO, COLPA GRAVE E RESPONSABILITA' DEL GIUDICE

 - Corte di Cassazione, sez. IV Penale,

sentenza 18 febbraio – 20 ottobre 2014, n. 43590
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 18 febbraio – 20 ottobre 2014, n. 43590
Il Collegio non può non condividere quanto osservato dal Procuratore Generale nella requisitoria
scritta,laddove si è evidenziato che il provvedimento impugnato non resiste alle censure dedotte dal
difensore con i due motivi di ricorso, tra loro intimamente connessi e quindi da trattarsi congiuntamente.
Preliminarmente deve richiamarsi l'ormai consolidato insegnamento di questa Corte (cfr. Sez. 4 n.2569 /
1999 rv. 213141; Sez. 4 n.9213 / 2010 rv. 246803 ) secondo il quale la colpa grave costituisce causa
ostativa al riconoscimento della riparazione dell'errore giudiziario " quando abbia dato causa all'errore
medesimo e non anche quando si sia limitata ad essere una delle cause concorrenti "; ciò a differenza
delle disciplina normativa sullì'incidenza della stessa causa ostativa ai fini della riparazione dell'ingiusta
detenzione. La pronunzia impugnata ha invero disatteso siffatta affermazione di principio.
La Corte d'appello ha individuato la causa dell'errore giudiziario nel comportamento del C. che, al fine di
evadere le imposte dovute, ebbe ad omettere l'indicazione dei ricavi così incorrendo in una violazione
tributaria, dotata di rilevanza penale, all'epoca dei fatto, tale da determinarne la condanna poi annullata
in sede di revisione. Ora, dalla sentenza di revisione è emerso che siffatta omissione non ha
rappresentato la causa esclusiva dell'errata condanna
del C., dovuta altresì alla mancata applicazione del jus novum , sopravvenuto alla condotta dell'istante,ma
comunque anteriormente alla pronunzia della sentenza della Corte d'appello di Firenze in data 5 marzo
2001 con cui fu confermata la condanna emessa dal Giudice di prime cure nei confronti del C. quale
responsabile del reato di cui al capo B, sopraindicato;
condanna poi divenuta irrevocabile a seguito della sentenza emessa il 18 aprile 2002 dalla Terza Sezione
penale di questa Corte che rigettò il ricorso per cassazione proposto dal C.. In sostanza alla stregua
del jus superveniens: art. 3 D.l.vo 10 marzo 2000 n. 74, la condotta del C.,integrata dall' aver
indicato, nella dichiarazione dei redditi dell'anno
1994, al fine di evadere le imposte sui redditi, ricavi inferiori a quelli effettivamente percepiti in tanto
avrebbe potuto conservare rilevanza penale in quanto ( come chiarito dalla sentenza di revisione ) fossero
state superate
entrambe le soglie di punibilità, espressamente previste dalla novellata disposizione normativa de qua,
quanto all'ammontare complessivo dei ricavi non dichiarati ed a quello dell'imposta evasa. Orbene, nel
caso di specie, ha accertato la Corte d'appello di Genova in sede di revisione che i ricavi non dichiarati
erano pari a lire 556.067.000 (importo quindi inferiore a tre miliardi ed al cinque per cento
dell'ammontare complessivo degli elementi attivi dei reddito) e che l'imposta sui redditi evasa per l'anno
1994 ammontava a lire 136.509.013 (importo quindi inferiore al limite di 150.000.000 lire ). Ne discende
che l'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte d'appello di Genova affinchè alla
luce di quanto fin qui osservato, proceda a nuovo esame della domanda di riparazione dell'errore
giudiziario, come proposta dal ricorrente. Allo stesso giudice di rinvio va altresì demandato di procedere
al regolamento delle spese tra le parti, anche per il presente giudizio.

LOCAZIONI COMMERCIALI E MOROSITA' DEL CONDUTTORE

Locazioni commerciali, morosità del conduttore e clausola risolutiva espressa
- Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 26 gennaio – 20 aprile 2015 


1.1 Con il primo motivo l'impugnante lamenta violazione dell'art. 665 cod. proc. civ., nonché vizi
motivazionali.
Deduce che, già prima della notifica dell'atto di intimazione di sfratto, il conduttore aveva completamente
saldato la morosità relativa ai mesi di luglio e agosto 2008, il cui ritardato pagamento era dipeso
esclusivamente da circostanze non imputabili alla debitrice, essendo stato determinato da disguidi tecnici
nella trasmissione dei bonifici da parte della Banca Popolare di Cremona, incaricata di accreditare
mensilmente il canone dovuto al G. .
Ciò posto - e ricordato che in occasione della prima udienza di convalida lo stesso locatore aveva dato
atto della sanatoria della morosità - sostiene la ricorrente che, contrariamente a quanto ritenuto dal
giudice di merito, la pronuncia dell'ordinanza di rilascio, ex art. 665 cod. proc. civ. è preclusa in caso di
mancata persistenza della morosità.
1.2 Con il secondo mezzo si denuncia violazione degli artt. 1218 e 1176 cod. civ., con riferimento alla
ritenuta responsabilità della conduttrice per il ritardo nell'adempimento, senza considerare che
l'adozione di un mezzo di pagamento del canone diverso dal versamento di moneta avente corso legale
presso il domicilio del locatore, era stata pacificamente da questi tollerata, al pari del lieve ritardo nei
pagamenti mensili e della conseguente disponibilità giuridica delle somme dovute oltre il termine
contrattualmente previsto, sì da diventare una prassi regolatrice del rapporto.
1.3 Con il terzo motivo l'impugnante prospetta vizi motivazionali circa un fatto controverso e decisivo per
il giudizio, ex artt. 1218 e 1453 cod. civ.. Il giudice di merito, nel ritenere la società conduttrice
responsabile per inadempimento, non avrebbe valutato l'assenza di colpa in capo alla stessa per essere il
ritardo nell'accredito dei canoni dipeso esclusivamente da disguidi tecnici del sistema interno della Banca
Popolare di Cremona. Segnatamente in maniera affatto incomprensibile la Corte territoriale aveva
ritenuto insufficiente la prova documentale costituita dalla dichiarazione scritta rilasciata dal predetto
Istituto, lamentando l'assenza di una conferma testimoniale.
1.4 Con il quarto mezzo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 e 1456 cod. civ..
Sostiene la ricorrente che, nella fattispecie, nonostante i ritardi accumulati dal conduttore nel pagamento
dei canoni, il locatore non aveva in alcun modo invocato la clausola risolutiva espressa di talché, sanata la
morosità, la clausola stessa era diventata inefficace. E tanto in applicazione della consolidata
giurisprudenza di legittimità per cui la dichiarazione di volersene avvalere, ex art. 1456, comma 2, cod.
civ., può essere resa, senza necessità di formule rituali, anche in maniera implicita, purché inequivocabile,
ma non può, in nessun caso, avere effetto se la controparte ha già adempiuto alle proprie obbligazioni
contrattuali.
2 Le critiche, che si prestano a essere esaminate congiuntamente, per la loro evidente connessione, non
hanno pregio, per le ragioni che seguono.
Buona parte di quelle svolte nel primo mezzo contestano la sussistenza dei presupposti per la pronuncia
dell'ordinanza di rilascio, ex art. 655 cod. proc. civ., insistendo, al riguardo, sulla pacifica, avvenuta
sanatoria della morosità, mercé il versamento dei canoni impagati.
Trattasi tuttavia di censure inammissibili, perché l'ordinanza di rilascio ex art. 665 cod. proc. civ. - priva
dei caratteri della definitività e della decisorietà, in quanto non irrevocabile, né idonea a statuire, in via
definitiva, sui diritti e sulle eccezioni delle parti (confr. Cass. civ. 6 giugno 2014, n. 12846; Cass. civ. 19
giugno 2008, n. 16630) - non è impugnabile autonomamente, né è suscettibile di passare in giudicato,
tanto più laddove, come nella fattispecie, essa sia stata completamente assorbita dalla pronuncia di
risoluzione (confr. Cass. civ. 19 luglio 1996, n. 6522).
3 Tale rilievo è stato del resto formulato anche dal giudice di appello, allorché ha osservato che la
questione della insussistenza dei presupposti per l'emanazione dell'ordinanza ex art. 665 cod. proc. civ.,
era anzitutto irrilevante, considerato che, disposto il mutamento di rito, era stata pronunciata la
risoluzione del contratto, con condanna al rilascio.
Ed è significativo che la ricorrente ometta completamente di confrontarsi con tale passaggio
argomentativo della sentenza impugnata, idoneo a essere qualificato in termini di autonoma ratio
decidendi della scelta decisoria adottata, così incorrendo in un ulteriore profilo di inammissibilità (confr.
Cass. civ. sez. un. 29 marzo 2013, n. 7931).
4 Miglior sorte non hanno le ulteriori doglianze formulate dall’impugnante, il cui esame, per ragioni di
ordine logico, deve partire da quelle svolte nell'ultimo motivo.
I principi giuridici ivi richiamati, effettivamente conformi alla giurisprudenza di questa Corte (confr. Cass.
civ. 24 novembre 2010, n. 23824, in motivazione; Cass. civ. 22 ottobre 2004 n. 20595; Cass. civ. 18
giugno 1997 n. 5455; Cass. civ. 5 maggio 1995 n. 4911), non giovano tuttavia all'esponente, per le ragioni
che seguono.
E invero, con riguardo alle locazioni a uso commerciale, l'offerta o il pagamento del canone (che, se
effettuati dopo l'intimazione di sfratto, non consentono l'emissione, ai sensi dell'art. 665 cod. proc. civ.,
del provvedimento interinale di rilascio con riserva delle eccezioni, per l'insussistenza della persistente
morosità di cui all'art. 663, terzo comma, cod. proc. civ.), non comportano tuttavia l'inoperatività della
clausola risolutiva espressa, nel giudizio susseguente a cognizione piena, in quanto ad esse non si applica
la disciplina di cui all'art. 55 della legge 27 luglio 1978, n. 392, in tema di termine di grazia, di talché, ai
sensi dell'art. 1453, terzo comma, cod. civ., dalla data della domanda volta allo scioglimento del vincolo -
che é quella già avanzata ex art. 657 cod. proc. civ. con l'intimazione di sfratto - il conduttore non può più
adempiere (confr. Cass. civ. 31 maggio 2010, n. 13248).
E invero il legislatore, nel dettare la disciplina di cui all'art. 55 innanzi menzionato, ha sì previsto che il
conduttore convenuto per la risoluzione del contratto possa evitarla pagando, nell'ultimo termine
consentitogli, tutto quanto da lui dovuto per canoni, oneri e accessori, ma ha escluso dalla sfera di
applicabilità della norma le locazioni a uso commerciale, come dimostra, in maniera invincibile, l'espresso
richiamo alle obbligazioni di cui all'articolo 5, dettato in tema di locazioni di immobili urbani adibiti a uso
abitativo, conseguentemente limitando a queste ultime la portata della disposizione (confr. Cass. civ. sez.
un. 28 aprile 1999, n. 272).
5 Tanto premesso e precisato in ordine alla compatibilità giuridica tra sanatoria della morosità e
attivazione della clausola risolutiva espressa, rileva il collegio che la contestazione volta a far valere che
in realtà non vi sarebbe mai stata, da parte del locatore, dichiarazione di volersi avvalere della stessa,
introduce una questione nuova, in quanto non trattata nella sentenza impugnata, nella quale il decidente,
senza menzionare eventuali sollecitazioni critiche formulate sul punto dalle parti, ha tout court esplicitato,
nella parte relativa allo svolgimento del processo, che il G. , dato atto dell'avvenuta sanatoria della
morosità, aveva tuttavia evidenziato che nel contratto era prevista una clausola risolutiva espressa in
caso di ritardato pagamento di due mensilità, contestualmente invocandola a sostegno della sua domanda
di risoluzione.
Ne deriva che la ricorrente avrebbe dovuto esplicitare, con il corredo deduttivo imposto dall'osservanza
del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, che la questione della mancata attivazione
della clausola faceva già parte del thema decidendum del giudizio di appello (confr. Cass. civ. 18 ottobre
2013, n. 23675).
6 Quanto poi alle censure volte a infirmare la positiva valutazione dei presupposti della pronuncia di
risoluzione del contratto e del conseguente ordine di rilascio, le argomentazioni in ordine alla pretesa
esistenza di una prassi per cui il pagamento dei canoni avveniva abitualmente oltre il termine
pattiziamente fissato sono, a ben vedere, estremamente generiche, considerato che l'impugnante omette
finanche sia di allegare il margine di ritardo tollerato; sia di indicare gli elementi acquisiti al processo da
cui si evincerebbe l'evocata consuetudine.
Peraltro, trattandosi di censure alla ricostruzione dei fatti di causa accolta dal decidente, il malgoverno
del materiale istruttorie che l'avrebbe originata andava denunciato in chiave di vizio motivazionale.
7 Le deduzioni in ordine alla valutazione della dichiarazione scritta rilasciata dall'Istituto di credito,
pretesamente idonee a escludere la colpa del debitore per i ritardi nell'adempimento dell'obbligazione,
sono poi gravemente carenti sul piano dell'autosufficienza, perché il contenuto della stessa - che pure
risulta prodotta unitamente al ricorso - non è stato riportato nell'atto di impugnazione, laddove le sezioni
unite di questa Corte, pur avendo chiarito che l'onere del ricorrente, di cui all'art. 369, secondo comma, n.
4, cod. proc. civ., così come modificato dall'art. 7 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di produrre, a pena di
improcedibilità del ricorso, "gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il
ricorso si fonda" è soddisfatto, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, mediante
la produzione dello stesso, e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d'ufficio, mediante il
deposito della richiesta di trasmissione, presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la
sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell'art. 369, terzo comma, cod.
proc. civ., hanno tuttavia precisato che resta ferma, in ogni caso, l'esigenza di specifica indicazione, a
pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, cod. proc. civ., del contenuto degli atti e dei documenti sui quali
il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari al loro reperimento (confr. Cass. civ. 3 novembre 2011, n.
22726).
8 Va pertanto qui ribadita la piena operatività del principio, centrale nell'iter argomentativo della
sentenza impugnata, per cui la tolleranza del locatore, in ordine al pagamento del canone, anziché presso
il proprio domicilio in moneta avente corso legale, a mezzo bonifico o accredito in conto corrente
bancario, non implica, salvo prova contraria a carico del conduttore, anche la tolleranza circa la
disponibilità della somma dovutagli oltre il termine pattuito per il versamento del canone, di modo che
laddove, come nella fattispecie, quella prova contraria non sia stata fornita, il solvens assume i rischi di
eventuali ritardi o disguidi derivanti dal ricorso al servizio bancario (confr. Cass. civ. sez. un. 28 dicembre
1990, n. 12210; Cass. civ. 21 aprile 2006, n. 9370).
10 Infine non è attinto da alcuna censura il rilievo della Corte territoriale secondo cui anche i pagamenti
successivi a quelli posti a base dell'intimazione di sfratto erano avvenuti in ritardo, il che confermava il
disinteresse della parte per il rispetto delle pattuizioni contrattuali.
Trattasi di affermazione in linea con la giurisprudenza di questa Corte, alla quale il collegio intende dare
continuità, secondo cui, mentre l'adempimento della propria obbligazione, da parte del conduttore in
mora di un immobile ad uso non abitativo dopo che il locatore abbia domandato la risoluzione del
contratto, non può essere tenuto in considerazione al fine di stabilire se l'inadempimento integri il
requisito della gravità, di cui all'art. 1455 cod. civ., all'opposto, la circostanza che l'inadempimento del
conduttore, non grave al momento della domanda di risoluzione proposta dal locatore, si aggravi in corso
di causa, è rilevante ai fini dell'accoglimento della stessa (confr. Cass. civ. 26 ottobre 2012, n. 18500). Ne
consegue che il silenzio serbato sul punto nei motivi di censura (che ulteriormente evidenzia
l'insufficienza dell'approccio dell'impugnante con le questioni sottese alla presente controversia),
comporta l'intangibilità delle argomentazioni svolte a sostegno di tale profilo del convincimento del
decidente.
Il ricorso è respinto.
Le spese seguono la soccombenza.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 26 gennaio – 20 aprile 2015, n. 8002

ASSICURATORE, MALA GESTIONE E INDENNIZZO OLTRE MASSIMALE

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 20 giugno – 23 ottobre 2014, n. 22511
1. Col primo motivo del ricorso principale, i V. e la R. deducono "violazione degli artt. 1224 e 2043, 18, 22
e 27 della legge 24.12.1969 n. 990 da leggersi in combinato disposto, in relazione all'art. 360 n. 3 C.P.C. -
insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio": censurano la sentenza per
avere contenuto la condanna della F. entro il limite del massimale di polizza e assumono che -
ricorrendo un'ipotesi di mala gestio impropria - avrebbe dovuto prevedere la responsabilità oltre il
massimale per interessi, rivalutazione monetaria e spese processuali.
Identica censura propongono, con l'unico motivo del ricorso successivo - che deve aversi come
incidentale (ex multis, Cass. n. 26723/2011) - Vi.Ma. , Sc.Li. e Vi.An. e El.An. .
1.1. Sul punto, la Corte territoriale ha affermato che "non può ritenersi la ricorrenza della mala gestio,
poiché la responsabilità del sinistro era obiettivamente controversa e per il suo accertamento è stato
necessario espletare notevole attività istruttoria orale e tecnica. La mala gestio non può nemmeno essere
giustificata dal mancato pagamento spontaneo della somma riconosciuta in esito alla sentenza di primo
grado".
1.2. Il motivo è fondato in quanto, in difetto di prova della sua non imputabilità (che dev'essere fornita
dall'assicurazione), il mero dato del ritardo - comporta il pagamento di interessi e rivalutazione oltre il
massimale.
Infatti, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, "in tema di assicurazione obbligatoria
per la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, sul danneggiato
che chiede la corresponsione del risarcimento oltre il limite del massimale limitatamente a
interessi e rivalutazione, con decorrenza dalla data di costituzione in mora dell'assicuratore,
coincidente con la scadenza dello "spatium deliberandi" di cui all'art. 22 della legge n. 990 del
1969 - incombe esclusivamente l'onere di dedurre il ritardo della società assicuratrice nella
liquidazione del danno, gravando quindi su quest'ultima l'onere di eccepire e provare la non
imputabilità del ritardo" (Cass. n. 19321/2004; conformi Cass. n. 19919/2008 e Cass. n. 17167/2012).
Nel caso in esame, ove non è mai stata controversa la responsabilità del P. (assicurato F.) e si è
discusso esclusivamente dell'eventuale concorso del vi. (poi escluso in sede di gravame), la sentenza ha
errato nell'applicazione dei principi sopra richiamati, atteso che la Fondiaria non aveva ragione per non
procedere tempestivamente al risarcimento (salvo eventuale regresso).

2. Col secondo motivo del ricorso principale, gli eredi di v.a. deducono "violazione dell'art. 112 C.P.C.
(ultrapetizione), in relazione all'art. 360, co. 1 n. 4 C.P.C.: nullità parziale della sentenza": si dolgono che
la Corte di Appello, pur dichiarando inammissibile l'appello della U. Ass.ni s.p.a. e pur affermando
che – pertanto - non poteva essere emessa alcuna pronuncia sulla domanda di restituzione somme, abbia
statuito "in assenza di domanda... che nessuna somma è dovuta dagli eredi del vi. e dalla Unipol
Assicurazioni in favore di V.A. " e degli altri "eredi v. ".
Il motivo è infondato, in quanto la Corte non ha emesso - in effetti - alcuna pronuncia sull'obbligo di
restituzione, ma si è limitata a dichiarare - coerentemente con le conclusioni cui è pervenuta in punto di
esclusiva responsabilità del P. - che nessuna somma è dovuta dagli eredi del v. e dalla compagnia
assicuratrice del medesimo.
3. Accolti, pertanto, il primo motivo del ricorso principale e l'unico motivo del ricorso incidentale, deve
cassarsi la sentenza in relazione ad essi, con rinvio alla Corte di appello di Catanzaro, che si atterrà ai
principi sopra richiamati e provvederà anche sulle spese del presente giudizio.